Incontro con Laurell K Hamilton, autrice di Anita Blake
Il problema è che tutto questo, la Hamilton ha iniziato a scriverlo nel 1992, aggiudicandosi da allora lodi sperticate di colleghi che le attribuiscono «la fantasia più fertile della narrativa contemporanea», del New York Times che inserisce regolarmente le sue pubblicazioni nei best seller dell’anno, e fornendo probabilmente ispirazione a tutti quei fenomeni successivi – True Blood compreso – che sono stati poi tradotti in film e serie televisive di grande successo.
In pratica, Laurell K Hamilton è la madre mai abbastanza riconosciuta della paranormal romance e della distopia. Come se non bastasse, ad un certo punto della narrazione ha consentito alla sua eroina di praticare sesso esplicito, descritto con dovizia di particolari, con i suoi numerosi (e bellissimi) amanti soprannaturali, ere geologiche prima di 50 sfumature di grigio.
Ma allora, come mai cinema e tv non le hanno mai riconosciuto i suoi meriti?
Comincio giusto a pensare che qualche scrittore del mio stesso genere mi debba delle percentuali (ride). In verità, non lo so neanch’io. Una produzione aveva opzionato i diritti di Anita Blake per una serie televisiva, ma poi ho scoperto che Hollywood dispensa molte più prelazioni di quante poi ne mandi realmente in porto. Mi piacerebbe ancora che venisse tratto un bel serial dalla mia saga, ma preferisco che non ne venga fatto nessuno, piuttosto di uno scadente.
Anita Blake le somiglia molto fisicamente e ha perso la mamma da bambina, come è accaduto a lei. Però fa resuscitare i morti, anche se temporaneamente. Quanto è stato terapeutico, per lei, creare questo personaggio?
Moltissimo, davvero, anche se all’inizio non mi sono resa conto di quanto della mia perdita precoce, e di tutte le conseguenze, stessi realmente riversando in quello che scrivevo. Se mi fossi accorta di quanto attingevo dal mio cuore, forse sarei stata meno spontanea. Quindi è un bene che tutto sia successo inconsapevolmente, per molti anni.
Anita porta sempre con sé un’arma, dice di sentirsi nuda, quando è disarmata. Per noi è una sensazione difficile da comprendere perché, come sa, in Europa procurarsi un’arma non è così facile come da voi, negli Usa. Lei pensa davvero che una pistola faccia sentire più sicuri, soprattutto dopo le tante stragi degli ultimi tempi, a causa di armi lasciate incustodite in case dove abitava anche uno squilibrato?
Beh, ricordiamoci intanto che Anita è anche un ufficiale di polizia, quindi per lei la pistola è un attrezzo di lavoro e con la pistola salva la sua vita, e quella di altri personaggi, in parecchi episodi. Molti dei poliziotti che conosco si sentono a disagio senza la loro arma, ma se consideri una pistola come un attrezzo da lavoro, la sensazione va interpretata esattamente come quando uno che usa il computer per lavoro si ritrova improvvisamente senza. Per quanto riguarda le recenti stragi in Usa, credo che se sul posto ci fosse stata anche qualcuno armato e addestrato a sparare bene, l’unica vittima sarebbe stato il pazzo che stava usando male la sua pistola. Le armi vanno usate con un solo scopo: difenderti. In alcuni casi, pareggiano anche le disparità, visto che permettono a una piccola donna di quarantacinque chili di atterrare un aggressore di cento chili. Potrei citare centinaia di episodi accaduti negli Stati Uniti in cui “il cattivo” ha desistito dal proposito di fare del male solo perché qualcun altro gli ha puntato contro un’arma. In genere, questi malintenzionati sono dei codardi che vengono bloccati con poco. Infatti, per i loro scopi, scelgono molti di quei locali che esibiscono il cartello «Vietato introdurre armi», per approfittarsi di chi è indifeso.
Lei ha pubblicato più di trenta romanzi in vent’anni, tra la saga di Anita Blake e quella della fata detective Merry Gentry, un altro grande successo. Mi descriva la sua giornata, così la copio e le faccio concorrenza. Anche lei beve tanto caffè come Anita?
(Ride). Sono una bevitrice di tè e quasi non tocco il caffè. Ho preferito fare di Anita una bevitrice di caffè per seguire la tradizione dei detective hard-bolied, come Raymond Chandler e Dashiell Hammett. Il tè, da noi, è considerato ancora una bevanda per europei. Poi mi dedico al fitness, certo, non ai livelli di Anita, perché la mia sopravvivenza non dipende dall’essere più forte dei cattivoni (ride). In verità sto cercando disperatamente di far quadrare le ore di attività fisica di cui ho bisogno, quelle da trascorrere necessariamente al computer, e la vita in famiglia, compresa una dose ragionevole di tempo con mio marito Jonathon e nostra figlia. Una santa trinità. In tutto questo, mi piacerebbe inserire qualche uscita con gli amici e con mia sorella. E se ci scappasse anche qualche minuto tutto per me, non guasterebbe. È una vera sfida, e purtroppo tutto questo tempo non si trova da nessuna parte. Anzi, spesso devo scegliere solo una di queste opzioni, a seconda delle scadenze o di eventi speciali. Quando invece sto scrivendo un libro nuovo, mi sveglio molto presto per attaccare a lavorare in un orario compreso tra le 7 e le 8 e 30, e vado avanti a cottimo finché non finisco il carburante, o devo mangiare qualcosa prima di andare in palestra, di solito fra le 11 e le 13. Se la palestra è nel pomeriggio, devo calcolare un pasto in orario sufficiente da aver digerito prima di cominciare gli esercizi, perché farli a stomaco pieno non è proprio il caso. In genere faccio un mix fra cardiofitness e pesi, tre volte a settimana. Un tempo facevo anche boxe e arti marziali gli altri giorni della settimana, ma spezzare troppo la giornata di scrittura mi disorienta e per gli ultimi libri ho dovuto abbandonare un sacco di attività fisica. All’inizio del manoscritto riesco a seguire bene la mia tabella di marcia, ma quando arrivo alle 200-300 pagine devo lasciare che la storia mi consumi e devo concedermi una maggiore flessibilità. Dice di volermi copiare? In realtà io stessa non sono riuscita ancora a venire a capo della mia giornata-tipo, che negli anni è anche variata molto a secondo dell’età di mia figlia, o di quanto aiuto avevo a disposizione.
Nei suoi romanzi, attraverso la metafora dei “mostri” integrati nella società, lei affronta spesso e con tenacia discriminazione, razzismo e maschilismo. Come mai è così sensibile riguardo questi temi?
Sono una donna, quindi ho affrontato le immortali discriminazioni di genere. E sono anche una donna piccolina e graziosa, quindi ho faticato molto per farmi prendere sul serio. Era più difficile da ragazza, quando non avevo la personalità e l’esperienza per ottenere il rispetto che pretendevo. Sono sempre stata molto motivata e schietta, così gli uomini con cui uscivo mi dicevano «Saresti perfetta se solo non parlassi». Volevano qualcuno che si rallegrasse solo per i loro successi. Ma io avevo ambizioni e obiettivi di mio e non ho mai avuto la vocazione a fare la ragazza pon-pon. Io volevo partecipare ai giochi, non assistervi. Inoltre, sin da bambina ho sempre desiderato che le cose filassero liscio e senza troppi problemi e non ho mai capito perché il colore della pelle, o la religione o quant’altro debbano fare la differenza. Se permettessimo a ogni donna, uomo o bambino di comportarsi al meglio delle sue possibilità, la maggior parte dei nostri problemi sarebbe risolto. Se invece teniamo qualcuno a freno, tutta la società rimane frenata.
Intorno al settimo volume, la storia di Anita Blake si è tinta di erotismo scatenando qualche polemica. Cosa l’ha spinta a questa svolta?
All’inizio era mia intenzione rendere così speciale ogni carezza, ogni bacio, che non ci sarebbe stato bisogno di altro. Puntualmente, invece, sono arrivate le recensioni in cui si lamentavano perché la mia eroina non faceva sesso. Quando ho deciso che Anita avrebbe finalmente fatto sesso “in scena”, mi sono accorta di essermi messa nell’angolo da sola. Non solo, fino a quel momento, avevo caricato di molta sensualità i baci: avevo anche descritto nel dettaglio molte scene piene di sangue e violenza. Ho sempre inserito la giusta quantità di violenza per questo genere di narrativa, ma ho sempre lasciato poco all’immaginazione. Mi sono resa conto che per coerenza avrei dovuto essere altrettanto dettagliata nel sesso, anche se mi imbarazzava. Perché descrivere gente che muore in modo violento non mi disturbava e descrivere atti sessuali fra persone consenzienti sì? Mi sono chiesta «La violenza mi spaventa meno del sesso?». È un’attitudine molto americana, anche se non mi so spiegare questa dicotomia. A quel punto ho capito che il sesso è infinitamente più positivo della violenza e che se mi costava tanto parlarne, dovevo forzarmi a scriverne. E l’ho fatto.
Come hanno reagito le lettrici? È vero che le vendite sono persino aumentate?
Le vendite aumentano ad ogni nuovo volume della saga. Molte donne, così come gli uomini, apprezzano il contenuto erotico dei miei libri. Certo, non tutti. Molti rimpiangono i primi volumi, più casti, ma sono una minoranza. Le donne apprezzano molto l’idea che finalmente anche un’eroina femminile disponga di un “harem” di amanti.
Come si spiega che ancora, nel XXI secolo, i detrattori della sua svolta erotica hanno fondato anche un gruppo su Facebook dove marchiano la sua Anita come “sgualdrina” solo perché fa molto sesso, mentre questo non sarebbe accaduto se fosse un uomo?
Per fortuna qualcosa sta cambiando, in America. Ora anche un uomo fra i venti e trenta che fa troppo sesso casuale comincia ad essere considerato un po’ “slut”. Il termine completo sarebbe “male-slut” (“sgualdrino”), ma è già stato ridotto per comodità in “slut”, valido per uomo e donna. La trovo una bella novità. Ovviamente, chi ha più di trent’anni non si accorge di questo cambiamento e continua a reputare che è ok e virile per un uomo saltare da un letto all’altro, ma che sia disdicevole per le donne. Nella maggior parte delle società è ancora radicata l’idea che alle donne il sesso debba piacere meno degli uomini. Nei giornali femminili spuntano spesso, ancora, articoli in cui il sesso è descritto come un mezzo che le donne usano per tenersi stretto il loro uomo. Invece, se per una donna il sesso con l’uomo che ama è un dovere, vuol dire che c’è qualcosa che non va, e andrebbe discussa fra i due, perché probabilmente non lo stanno facendo in modo da soddisfare entrambi. Il mio consiglio alle donne è che se il vostro amante non trova necessario imparare a darvi piacere, dovete trovarvene un altro. Il sesso è troppo importante per sprecare la vita intera facendolo male.
Nelle sue storie si sono vampiri, licantropi, sirene, demoni, tutto il pantheon dei mostri classici. Ha mai pensato di crearne uno lei?
Dopo vent’anni credo di averli tirati in ballo proprio tutti (ride). Però cerco sempre di attenermi al folklore tradizionale, alla mitologia e a quello che propongono i film. Così come faccio molte ricerche etologiche per tracciare la personalità e le abitudini dei miei animali mannari. Credo che attingere dall’immaginario già esistente, e dai miti classici, renda i personaggi più realistici e coinvolgenti.
È vero che lei è una tecnofobica? Mi chiedevo cosa ne pensa dei social network e se legge libri e giornali digitali, ad esempio.
È vero, sono stata una tecnofobica, anche se tutti i miei libri sono stati scritti su computer. Suona strano, ma è così. È solo da quattro anni a questa parte che ho smesso di farmi intimidire dalla tecnologia. Mio marito, Jonathon, mi ha mostrato un sacco di comics online come Sluggy Freelance, The Devil’s Panties, Schlock Mercenary, and Girl Genius da cui sono diventata dipendente. Poi ha smesso di servirmeli su un piatto, costringendomi a farlo da sola. La voglia di vedere come proseguivano mi ha permesso di sconfiggere la paura di internet. Con un altro sforzo sono riuscita a iscrivermi a Twitter perché Facbook, o il mio stesso forum, mi sembravano labirinti. Twitter è rassicurante, con quei 140 caratteri da rispettare. Scrivi quello che hai da dire, breve e conciso, e poi torni al lavoro mentre qualcuno risponde immediatamente. Questo tipo di contatto umano mi ha aiutata molto in alcune notti solitarie mentre scrivevo a oltranza per una consegna in scadenza. Piano piano ho preso confidenza anche con Facebook e ora sono in grado di postare da sola i messaggi, delego ad altri solo gli annunci di presentazioni ed eventi. Da lì, sono passata all’IPhone e l’Ipad, su cui ho scritto persino lunghi paragrafi dei miei ultimi romanzi. Prima entravo nel panico anche quando aggiornavo un programma e l’interfaccia cambiava, ora invece ho mantenuto la calma anche con il nuovo Itunes, con cui ascolto musica mentre scrivo. In realtà, preferisco ancora il libro cartaceo, da sfogliare e riempire di annotazione a piacimento. Ma quando ho visto mio marito caricare cinquanta libri sul suo Kindle, mentre io ne spingevo a forza due in una valigia, mi sono convinta a provare. Una volta tenevo sul comodino un blocchetto e una penna, per le idee improvvise. Ora tengo l’Iphone, e mi rendo conto di preferirlo.
Quando JK Rowling ha pubblicato l’ultimo volume di Harry Potter, ha detto di sentirsi un po’ depressa perché lasciare andare un personaggio con cui hai convissuto per dieci anni è durissima. Lei, dopo venti, come si sentirebbe senza la sua Anita, il suo bel vampiro Jean-Claude, e Richard, Micah, Nathaniel e tutti gli altri?
La storia di Merry Gentry è arrivata forse alla fine perché, senza dare spoilers a chi non l’ha letta, è nella fase del “vissero felici e contenti” e non so se riuscirò a proseguire trovando un modo per non scontentala troppo. Ho invece appena terminato il ventunesimo episodio di Anita Blake quindi anche voi in Italia, che siete indietro con le traduzioni, potete stare tranquilli per un bel po’. Dopo tutto questo tempo scopro e imparo ancora cose nuove sul mondo che ho creato, sui miei personaggi. E, no, non riesco a immaginare una vita senza Anita Blake e i suoi amici. Se passo troppo tempo senza scrivere le loro storie mi mancano da morire, come un caro amico con cui non parli da tanto.