Vai così, Dalai Lama!
Nella filosofia buddista, il rispetto per ogni forma di vita è cruciale. Per questo non mi azzardo a schiacciare col giornale la mosca ubriaca di caldo che molesta la sala stampa, anche se l’insetticidio mi renderebbe popolare fra i colleghi.
Sto aspettando l’ingresso di Sua Santità il Dalai Lama, e ho un po’ di amaro in bocca. Per due mesi ho bombardato il suo assistente in Svizzera di richieste formali, di gioviali preghierine informali, infine di disperate invocazioni dignità-prive, pur di ottenere un’intervista a tu per tu. Nulla da fare. Appena entrata nella sala Premium del Forum di Assago ho scoperto di aver rischiato inutilmente la denuncia per stalking, perché un volantino distribuito fra i giornalisti si scusa e informa che ogni colloquio privato è stato declinato causa insistente voce che una donna stia cercando di attentare alla vita del Gioiello di Saggezza (uno degli appellativi di Sua Santità), porgendogli una sciarpa bianca intossicata, o approfittando del saluto fronte-fronte per avvelenarlo con una ciocca di capelli al curaro. Cerco di consolarmi, e di guardare con amore la zanzara tigre che ha appena intinto il pungiglione nel mio polpaccio.
Finalmente, il Dalai Lama entra e tutti tacciono educatamente, ma poi schizzano dalle sedie e si assiepano intorno a lui fin dove la security lo consente. Lui arranca sportivamente sui tre gradini che lo portano al tavolo, si siede e avvicina il microfono alla bocca. «Ah ah ah…», sogghigna sornione, senza apparente motivo. E tutti ridono con lui. Non se ne può fare a meno. Attacca a parlare col tono di Al Pacino ne L’avvocato del Diavolo, ma scaccio subito l’immagine per non gravare il mio karma del peso specifico del granito grezzo. La conferenza stampa ha inizio, il divo tibetano fa una ramanzina ai massmedia raccomandando, al netto dei giri di parole, di raccontare meno balle e più fatti. Tutti incassano a testa bassa, mentre visualizzo il contatore del mio karma con 600 inaspettati punti di demerito, 100 per ogni anno di militanza nel gossip.
Il tempo è poco, le domande in sospeso sono molte, ma gli immancabili inviati di Cavalli & Segugi scambiano l’incontro stampa con l’occasione della vita per fare colpo su zio Lama con la domanda articolata, alla quale lui risponde basito «Non lo so proprio». Risate, applausi. Lo adoro. Vorrei chiedergli qualcosa sull’atteggiamento del buddismo riguardo le coppie gay, sull’apertura di Obama ai same-sex marriages, ma quando arriva il turno delle domande nel mio settore il tempo è già bello che scaduto. Grazie Cavalli & Segugi. Basta così, ci si sposta di là per seguire la lezione.
Platea e galleria sono stracolme. Ecco come sono fatti gli italiani: proprio quando credi che siano alla frutta delle risorse sportive e intellettuali, macinano gironi agli Europei e riempiono un’immensa cattedrale di plastica refrigerata, così rapiti dal carisma di un anziano signore orientale da starsene zitti e buoni per due ore e mezza ad ascoltare i massimi sistemi della vita. Forse, non tutto è perduto. La lezione comincia. È tosta per chi è già buddista, chissà per gli altri. Dharma, causa ed effetto, «Non diventate buddisti senza aver studiato bene le nostre scritture», «Se ami il prossimo, non sei in grado di tradirlo, di fargli del male», intima dal palco il Protagonista, un po’ in inglese, un po’ in tibetano, ondeggiando ritmicamente come se il filo che gli attraversa la spalla sia quello di un Ipod nascosto tra le vesti. Una suora cattolica affiora dai posti alla mia destra ed esce. Credevo fosse contrariata, mi sembra di intravederla mentre rispunta sul palco, dove prende posto fra i dignitari. Beata lei.
Mi distraggo per un momento, perché è molto bello quello che sento, ma è dura seguirlo alle tre del pomeriggio senza aver ancora pranzato. Rialzo gli occhi e trovo la sorpresa. Ci sono sei schermi giganti appesi qua e là nel Forum di Assago, e tutti e sei stanno riproducendo la stessa immagine: Sua Santità che sbadiglia. E senza mettere la mano davanti alla bocca. Stento a crederlo, perché quando ha detto di svegliarsi ogni mattina «alle tvì tevty» mi ero fatta di lui un’idea über–trascendentale e ci avevo creduto poco quando ha giurato di essere «un umano normale, fra altri sette miliardi di esseri umani». Infatti, anche lui ha sonno. E il monaco seduto ai piedi dell’aureo trono su cui è appollaiato si sta mettendo le dita nel naso. Sono come noi! Mi sento rassicurata, forse anch’io, che al confronto mi sento un platelminta, potrò un giorno raggiungere la loro saggezza.
La lezione è finita, Egli ci saluta. Nessuno esce, un po’ per prolungare il lungo momento in cui si sono trovati nella stessa stanza (piazza d’armi?) col Dalai Lama, un po’ per la curiosità di vedere come lo tireranno giù da quel baldacchino. Sento il cuore colmo di consapevolezza e speranza, mi preparo a tornare a casa con un filo di commozione. Poi, l’occhio cade sul mucchio di scarpe tutte uguali lasciate lì dal drappello di monaci seduti sul palco, con i loro trichiwara arancioni e le testine lucide rasate di fresco. E arriva il dubbio che – lo so – spazzerà tutta la serenità guadagnata e mi leverà il sonno per giorni.
Come fanno a riconoscere ognuno il proprio paio, senza essere creature soprannaturali?