La toilette in ufficio: quanto imbarazzo…
L’odore asettico del detergente, il candore maiolicato della toilette. Il fragore del mondo e le sue frenesie sono cose lontane. La tranquillità regna più che nelle dieci baie nascoste segnalate dall’Huffington Post, rotta solo dall’eco soffusa di clacson e motori, e da una goccia cadenzata. Il cervello vorrebbe rilassarsi, grato per la tregua di input. E invece vortica, spinto da massicce dosi di stress. Perché in quel momento, nella toilette, vorresti nell’ordine: rubinetti che scrosciano come a Villa d’Este, colleghe in girotondo come baccanti fra i lavandini, i bidoni di Super Mario che rimbalzano, un quartetto di mariachi che riarrangiano Marilyn Manson, una lezione di spinning con vocalist nella stanza attigua, l’inaugurazione del Gay Village nel cortile sottostante, e la finale di Champions League in sala riunioni. Solo così riusciresti a ottenere l’adeguata copertura sonora. E farla in santa pace.
La toilette comune, la funzione più “impegnativa” che puoi svolgere lì dentro, e il resto del mondo sono tre fenomeni incompatibili. L’incubo di ogni donna non cresciuta nella giungla, l’ultimo tabù femminile su cui comincia a interrogarsi la stampa negli Usa. Il fattore scatenante è sempre la crisi che, causa traslochi in sedi ridimensionate, ha spinto volonterose megamanager a perdere il benefit della toilette privata, e a imparare a farla in compagnia forzata. Un dramma che oltreoceano si consuma quotidianamente, dove un negletto pezzettino di carta igienica infilzato nel tacco delle Louboutin è sufficiente a distruggere una reputazione professionale, figuriamoci un effetto sonoro molesto. «Da queste parti, il guaio è la feroce competitività americana», spiega Vanessa, italiana impiegata da cinque anni a New York in una famosa azienda di servizi di consulenza e revisione conti. «Le altre donne usano le tue défaillance per sparlare alle tue spalle con le persone giuste, e frenare la tua già faticosa scalata ai vertici. Meglio stare molto attente».