Frecciarossa, non andare via…


Ce l’avete un sogno ricorrente? Il mio è un incubo che si ripete a scadenze regolari di circa 3-6 mesi, e consiste sostanzialmente nella sottrazione da parte di forze oscure, mentre sono distratta, di computer/ipad/borsetta/gatto/cane e nella conseguente disperata ricerca tutta la notte (con tanto di indizi da caccia al tesoro) in location surreali che variano fra città rase al suolo da un cataclisma e paradossi architettonici di Escher. Sento che però questo sogno ricorrente non tornerà più perché si è concretizzato ed esorcizzato nel migliore e più vigliacco dei modi: l’ho visto succedere a un altro.

Immaginate una Frecciarossa carica di maschi adulti romani che vanno a Milano, moderatamente scazzato-malinconici per quell’incrocio di gratitudine e repulsione che il Nord suscita in chi vi immigra dal Sud. Mescolati fra loro, un giocatore di basket friulano o veneto, non so, un po’ brutale ma carino (diciamo che avrebbe potuto vincere il titolo di Mr Italia nell’Alto Medioevo), un giovane avvocato dotato di molti device digitali e computer, ampio bagaglio e portabiti con completo formale (che sia avvocato si sa perché continua a ripeterlo al telefono) e una giovanetta con la faccina e la vitalità di Cristina Ricci nel ruolo di Venerdì, ognuno in viaggio per conto suo.

Succede poi che dopo due ore abbondanti di viaggio il treno si ferma nella stazione a gabbia toracica di Reggio Emilia dal cui tetto, quando nevica, precipitano silenziosi fardelli bianchi che ti fanno immaginare molto più in alto i Bruti impegnati nella drammatica scalata della Barriera dal Grande Nord. E succede che il giovane avvocato decide di scendere a fumare una sigaretta, avendo cura, prima di mettere il piede a terra, di avvisare tutti noi con l’ottimismo del pendolare sulla disgraziata linea Roma – Viterbo, dove l’attesa delle coincidenze a Castelnuovo di Porto può durare per un tempo infinito.

Come si può immaginare dalla premessa, dopo appena un minuto le porte hanno iniziato a fischiettare l’avviso di imminente chiusura. Uno dei romani balza dal suo posto per affacciarsi dall’uscita più vicina e gridare al fumatore a terra le testuali parole: «Aoh! Spicciati!». Ma lo sforzo muscolare e vocale sono serviti, ahimè, solo a dare modo di dimostrare che un’educazione civica impeccabile può diventare d’impaccio. Un riflesso condizionato di Pavlov costringe infatti il poveretto ad allontanarsi ulteriormente per spegnere la cicca nel posacenere della stazione, invece di gettarla a terra frettolosamente e saltare a bordo, e il suo rispetto per l’ambiente viene premiato con la chiusura della porta a un millimetro dal naso.

Segue drammatica sequenza in cui il giovane avvocato prova a inseguire il convoglio gridando un qualcosa che dal labiale sembrerebbe proprio «Fermate ‘sto ca**o di treno» – come se ci fossero i comandi a ogni sedile – e noi lo guardiamo impotenti con i nasi incollati al finestrino, angosciati come la Bullock che vede fluttuare via Clooney in Gravity, ma ebbri di quella sadica consapevolezza che sarebbe potuto succedere a ognuno di noi, però non stavolta. Poi il treno esce da quella specie di torso di balena di Pinocchio separando inesorabilmente un uomo dai suoi beni materiali, e il paesaggio cambia inesorabilmente.

«E mo’ che famo?», è il primo commento che si ode dopo un rispettoso e scioccato minuto di silenzio generale. La prima a reagire è Venerdì che risvegliata di botto, fa scorrere con sollecito senso pratico la zip della borsa dell’assente e cerca all’interno il biglietto per leggere il nome, e magari qualche dato in più. «E se ha lasciato il telefono a bordo?», obietta il più menagramo. Il mutismo cala nuovamente sulla neocomitiva, ma il ritrovamento del biglietto non cambia le cose perché è stato emesso da un’agenzia e riporta misteriosamente solo il pnr di viaggio. «Ammazza che culo». Commenta qualcuno.

Per fortuna il 14 maggio 1984 è nato Mark Zuckerberg. Il cellulare di Venerdì lancia un beep e la ragazza, nonostante la cattiva ricezione del segnale, riesce ad accettare una richiesta d’amicizia da sconosciuto. È proprio lui, il giovane avvocato! Che per fortuna non si era fatto gli affari suoi e aveva letto il nome di lei sul biglietto quando è passato il controllore. Venerdì lo richiama subito al numero che le ha mandato in messaggio privato e il contatto è stabilito. «Ha solo il cellulare e il portafogli», ci mette al corrente Venerdì. «Pensa se mo je se scarica pure», profetizza un gufo romano. «’Na cosa è sicura», aggiunge un altro, «de fuma’, da oggi ha smesso».

Tutto è bene quel che finisce bene. Alla stazione Centrale di Milano, dopo un calo di tensione emotiva che ha suscitato, per contrappasso, qualche risata durante il resto del viaggio e scambi di informazioni personali come il numero di scarpe del giocatore di basket (54), troviamo lo zio del giovane avvocato che recupera tutto il bagaglio, scaricato un pezzo per volta dal gruppo prima di lasciarlo lì ad aspettare il nipote in arrivo col treno successivo, che da leggenda di fine viaggio risultava addirittura alla mattina dopo. Ma non era più compito mio scoprirlo.

Io me ne sono tornata a casa trascinando la mia valigia pesante come il cadavere mai trovato di Jimmy Hoffa, ma accompagnata da quel piacevole stupore che mi coglie in ogni occasione in cui la gente, quando c’è da aiutarsi l’un l’altra, dimostra di essere molto, molto migliore di quel che poi dice di sé sui social network.