Un introverso salverà il mondo


Vita da introverso. Ci risiamo. Non hai chiuso occhi fino a tardi e ti sei svegliata prestissimo, con la sensazione che qualcuno abbia usato la tua schiena per tirare la sfoglia delle lasagne col mattarello. A strapparti dalla foschia del sonno ci pensa subito il minuscolo segretario ansioso che vive nei cervelli, rammentandoti che è proprio oggi il giorno in cui devi tenere quel discorso davanti a un battaglione di colleghi. E adesso che hai ricordato il motivo dell’insonnia, deglutisci smarrita e vuoi un caffè. Butti giù il caffè. Ora ti viene da vomitare. Bene, così puoi darti malata. Ma se ti dai malata, il discorso non lo farà nessuno e sarà un disastro. Devi andarci per forza, anche perché tutto il tempo trascorso a studiare l’argomento in ogni minima sfumatura (per riempire eventuali vuoti di memoria da panico) sarebbe stato uno spreco. Ti fai coraggio ed esci di casa, ma ti chiedi per l’ennesima volta perché mai, tre anni fa, non l’hai vinto tu quel concorso per fare la strapagata guardiana sull’isolotto australiano da sogno (deserto), anche se oggi ti accontenteresti di un posto da spigolatrice a cottimo di gelsomini a Grasse o di custode delle scimmie sacre di Ubud, in cambio di una tazza di Nasi Goreng scondito.

Molte ore dopo, a discorso (impeccabile) finito, mentre ti godi i complimenti di tutti e hai scordato le paure, tocchi il picco massimo dell’euforia pregustando il momento in cui a casa leggerai qualche pagina di un romanzone sciacquapensieri, prima del meritato riposo e della pace. Fino a nuova ansia. Tanto la storia è sempre la stessa: a scuola sapevi la risposta ma non alzavi la mano, eri nel panico al pensiero di leggere sul pulpito la preghiera della prima comunione, ti prepari ai colloqui di lavoro con lo spirito di un condannato alla forca. E poi, vorresti rifiutare tutti quegli inviti alle feste che, lo sai già, si trasformeranno (almeno per te) nell’incrocio fra la calca nell’ora di punta sulla metro a Tokyo e una distribuzione annonaria di viveri. È il tuo piccolo segreto, te ne vergogni un po’ e temi di avere qualcosa di sbagliato dalla nascita. Invece, ci sono buone notizie.

La prima è che non sei malata: sei un’introversa. La seconda è che un terzo della popolazione mondiale si sente come te, ma è protagonista di una rivincita grazie a un saggio americano intitolato Quiet: The Power of Introverts in a World That Can’t Stop Talking, in uscita a ottobre anche da noi per Bompiani. «Introverso è colui che preferisce bere un bicchiere di vino con pochi amici fidati, mentre l’estroverso si trova a suo agio in un locale pieno di estranei, spiega alla rivista Forbes l’autrice Susan Cain, che ha classificato gli introversi come una categoria da emancipare, «al pari delle donne, negli anni 50 e 60». E forse, anche al pari degli orientali, che gli stereotipi bollano come immoti, silenti e dediti a esercizi zen. Per convincere anche i più scettici, ha raccontato come gli introversi abbiano scritto da sempre capitoli importanti dell’umanità rimanendo spesso in ombra, e senza porre la firma sulla loro opera. Ora è arrivato il momento di metterli in luce. E di riconoscerne i meriti.

Susan è un’avvocatessa (introversa) che lavorava a Wall Street, prima di gettare la carriera alle ortiche e mettere in pratica quello che consiglia nel suo libro. Ovvero, assecondare il più possibile la propria natura, perché portare troppo a lungo una maschera fa ammalare l’anima e il corpo. A dire il vero Quiet, nato dal bisogno di fare chiarezza sul proprio stato d’animo e dall’osservazione dell’ambiente circostante, ha finito per trascinarla
verso raffiche di interviste e presentazioni affollatissime. Ma oggi, invece che da aggressivi colleghi e broker, la sua audience è composta da lettori (introversi) molto riconoscenti. E questa prospettiva, oltre a metterla al riparo dall’ulcera, le consente di lanciarsi in brillanti battute e la libera dall’obbligo di nascondere l’annuire, il deglutire e l’accenno di balbuzie che tradiscono la sua vera indole.

Il successo del libro, infatti, sta nella massiccia identificazione di chi si sente a disagio in un sistema che, basandosi sul mito dell’arte oratoria greco-romana, spinge tutti a mettersi in mostra. «La società nutre dei pregiudizi nei confronti degli introversi», spiega Cain in un’intervista al Guardian. «La gente li vede come qualcosa di negativo. Individui solitari e scostanti, se non addirittura maleducati. In realtà gli introversi non sono “asociali”, ma “diversamente socievoli”». E fa l’esempio di Isaac Newton, Albert Einstein, Frédéric Chopin, Marcel Proust, Gandhi, Steven Spielberg,
Bill Gates, Madre Teresa, tutti molto poco mondani. E azzarda che i vibranti discorsi di Martin Luther King (estroverso) sarebbero serviti a poco, ai neri d’America, senza la taciturna provocazione di Rosa Parks, la mite segretaria afroamericana arrestata nel ’55 per disobbedienza civile, dopo aver rifiutato di cedere il posto in bus a un bianco.

L’idea di Quiet non è inedita: nel 2002 la psicoterapeuta Marti Laney aveva scritto il saggio The Introvert Advantage: How to Thrive in an Extrovert World. Come Cain, Laney descriveva quell’errata convinzione che una persona poco propensa alle attività (o ai giochi) di squadra sia “infelice”. Faceva notare come l’introversione venga affrontata da terapeuti e genitori alla stregua di una malattia, invece che un tipo di temperamento. E spiegava che i restanti due terzi di popolazione estroversa crede, in buona fede, che il proprio sia il migliore degli orientamenti, e cerca di farlo adottare anche da chi è diverso. A dieci anni da quel saggio, non è cambiato molto. Il sistema didattico occidentale, che la Cain definisce “scuola taglia unica”, trascura le esigenze di quegli alunni che danno il meglio da solisti, e che per farsi sentire hanno bisogno di fare breccia nel muro degli impulsivi. Col risultato che sono più impegnati a uscire indenni dalla giornata che a imparare. E chi ne fa le spese sono soprattutto gli studenti di origine orientale, cresciuti in una cultura che invita tradizionalmente alla riservatezza. Come succedeva all’archistar Maya Lin, che da bambina preferiva chiudersi nella fonderia di scuola a fare pupazzetti di bronzo, invece di giocare con gli amici. La differenza tra il bestseller della Laney e Quiet sta però nel contesto storico. Il secondo, infatti, si fa strada nel mezzo di una riflessione che sta convincendo anche i più ostinati a dare voce ai silenziosi: la constatazione che, dalla crisi economica, si sono salvati (se non arricchiti) gli investitori meno intraprendenti.
Quelli che spariscono ogni tanto dall’ufficio «per una boccata d’aria».

Più sensibili agli stimoli (da neonati si agitano molto, seguono tutto con lo sguardo), gli introversi rifuggono infatti la folla per limitare l’empatia, e per tutelarsi dal senso d’impotenza di fronte a un allarme sottovalutato. Questa cautela, però, li tiene lontani dalla stanza dei bottoni e lascia spazio a leader carismatici (estroversi) meno vulnerabili, ma meno reattivi alle emergenze. Ed ecco spiegate le guerre inutili e una certa indifferenza verso il degrado ambientale. La rivoluzione di Susan Cain era quindi sotto gli occhi di tutti: ammettere che il mondo ha un disperato bisogno di leader introversi e della loro sensibilità. Ora, resta solo da convincere gli estroversi a cedergli il passo, volontariamente. Sarà una cosa da nulla.