Cosa succede quando sei positivo al Covid19 con sintomi?
(Warning: questo diario su Cosa succede quando sei positivo al Covid19 verrà aggiornato fino al mio secondo tampone negativo)
La legge è uguale per tutti. Il Covid no. Raccontare il proprio può dare un’idea a chi non l’ha avuto e suscitare qualche momento di identificazione in chi lo ha. Ma nient’altro. Il Coronavirus ognuno lo vive in modo diverso e soprattutto, è lui a decidere come vivere nel corpo di ognuno di noi dividendoci in asintomatici, sintomatici in condizioni sopportabili, e sintomatici gravi. Io appartengo alla categoria di mezzo, e già così disprezzo quelli per cui “il Coronavirus è un’influenza come le altre e uccide solo i vecchi e chi sta già male”. Partiamo dall’inizio, giusto per usare un attacco scontato.
Di morbi ne ho ospitati molti. A quattro anni, per una rarissima reazione, il vaccino del vaiolo mi ha provocato la comparsa dei sintomi, subito bloccati dai medici nonostante le mie proteste in difesa dei puntini da coccinella. Un anno prima avevo avuto l’epatite A, a 12 avrò il paratifo e a 33 la salmonella. Non mi sono fatta mancare nulla, ma sono rimasta una persona in buona salute. Per cui anche se i batteri e i virus non si vedono io, diciamo così, “li vedo” perché li temo e ho stabilito con loro un accordo di non belligeranza che mi trattiene dal viaggiare in luoghi che richiedono raffiche di vaccinazioni. L’influenza stagionale invece, non la prendo mai. Non mi vaccino dal 1992 perché tanto con me non attacca, è capitato giusto un paio di volte in 28 anni.
Per cui quel giorno al ristorante in un comune nella città metropolitana di Milano lo sapevo che io e la mia coinquilina stavamo prendendo il Covid, mentre lei diceva “ma va’ non possiamo essere così paranoiche”. Quindici giorni chiusa in casa in smartworking, usciamo una volta sola per festeggiare nove anni di amicizia e ce lo siamo beccato tutte e due. Osservavo le persone al buffet che prendevano i piatti da una pila e li passavano al cameriere che li riempiva, le immaginavo mentre poco prima asciugavano furtivamente le dita sul tovagliolo dopo aver cavato un’alga fritta incastrata fra i denti, e ora con quelle stesse mani stavano toccando il piatto, lo contaminavano, il piatto contaminava le mani del cameriere che avrebbe preso il piatto successivo. Guardavo tanti maschi che giravano spavaldi per la sala con la mascherina sul mento – le donne di meno, pare che la mascherina per alcuni uomini sia poco virile –, guardavo i commensali sconosciuti alla mia destra, a un tavolo che non era proprio a distanza di sicurezza e guardavo le tavolate di quindici persone che intingevano la forchetta nel piatto degli altri per assaggiare tutto, e non erano certo conviventi. Sapevo di essere fottuta, quel giorno, e non ho fatto nulla per colpa dello sfinimento di 8 mesi di precauzioni.
I sintomi del Covid sono arrivati una settimana dopo, qualche linea di febbre e mi sono messa in isolamento perché ero sicura. È iniziato il giro di telefonate per avvisare chiunque avessi visto nelle ultime ore e ho toccato la prima tappa del percorso di consapevolezza che mi ha spiegato come mai questo virus si sia sparso come le bilie scappate da un sacchetto squarciato: la risposta di molti “io non l’ho preso”. Non serviva spiegare che se ci siamo visti l’altro ieri non puoi ancora manifestare i sintomi, c’è il rifiuto della sola idea di averlo preso. Qualcuno, quattro giorni dopo, con la febbre insisteva a dire di aver preso freddo e non ha fatto il tampone fino a quando non è stato inevitabile. Ma il cammino che hanno preso i microrganismi che hai lasciato per strada diventa marginale quando entri nel tunnel del protocollo che ti ostini a voler imboccare perché è giusto così, per senso civico.
Ti accorgi prima di tutto di non avere riferimenti, il racconto degli altri non è utile. Ogni regione ha protocolli diversi e li ha ogni provincia, città e medico, ci sono criteri diversi per accordarti l’accesso al tampone e tempi e modi diversi per farti avere l’esito del tampone. Io mi sono avventurata all’alba per conquistare un posto decente in coda a un drive in a Civita Castellana, un paese nella Tuscia viterbese, che apriva alle 8.30 ma alle 7.30 eravamo già 154. Che Dio benedica quelle formichine solerti che ti danno il numeretto del tuo turno, smistano la gente, la dividono in file, cazziano quelli che scendono dall’auto, indicano dove dirigersi. Tre ore dopo mi scavavano nel naso e in gola e l’infermiera, dopo 153 tamponi già fatti, è riuscita pure a dirmi “in bocca al lupo”.
Arriva il risultato positivo. Decido di divulgare il risultato per dare il buon esempio e i miei contatti si dividono subito in due. Quelli che hanno paura di essere contagiati passando vicino alla mia auto parcheggiata davanti casa o rispondendo a un messaggio WhatsApp (se no perché ci sarebbero gli antivirus?) e quelli che ti riempiono le chat private con offerte di fare da pony per medicine, cibarie, giornali, chiacchierate a distanza di sicurezza sulla soglia, e il bottegaio del paesino (mi trovavo a Calcata, quando sono arrivati i sintomi) che si offre di lasciarti la spesa sulle scale e dice: “mi paghi quando guarisci”. Ci sono quelli che ti scrivono nella chat di Facebook: “Ciao carissima! Ho letto che sei positiva! Mi dispiace tanto, dai che quando guarisci ci andiamo a fare una birra”. Ok, ma tu chi diamine sei? Ci sono quelli che partono con la preoccupazione “Oddio ho saputo, mi dispiace” e solo dopo: “ma come ti sentivi nei giorni prima, per caso ti colava il naso, ti faceva mai male il ginocchio destro come se pulsasse mentre eri seduta, ti prudeva la schiena?”. Ti viene voglia di rispondere “sì” a tutto per farli cagare sotto.
Un altro cambiamento concreto nella tua vita riguarda i Dpcm. Se da marzo ogni sera ti precipitavi a sentire il bollettino, adesso che del bollettino fai parte anche tu si dilata a dismisura la vastità del beep che te ne frega di quanti sono nella tua stessa situazione, perché ormai è fatta e devi pensare ai cari che hai contagiato e che sono più vecchi di te. L’assurdità di questo virus è che nella giornata prima della comparsa dei sintomi pranzi all’aperto con quattro amici, e risultano tutti negativi. Trascorri due ore nella stessa casa con i genitori per salutarli senza mai toccarli, perché questa è la regola da marzo, e li hai contagiati. Improvvisamente ti ricordi l’esistenza di Immuni. Prendi il cellulare e clicchi su “comunica positività”. Scopri così che quel gesto serve solo a generare un codice che devi comunicare “all’operatore sanitario”. Sì, ma quale? Ogni regione ha fatto come vuole, ma nella mia né la dottoressa di base, né la Asl, né il Cup, né il Toc mi sanno dire a chi va comunicato. Deve essere successo anche alla persona che ha contagiato me, perché l’alert non mi è mai arrivato. Ed è così che dopo aver predicato per mesi ovunque “scaricate Immuni!”, l’ho disinstallato mestamente dallo smartphone.
Da quel momento in poi, devi solo aspettare. Aspettare. Aspettare. Il bugiardino della Tachipiria diventa la tua lettura preferita e ordini un altro termometro perché senza più mercurio questi digitali non valgono un fico secco e devi fare la media fra uno che ti dà 35 e uno 37,4. Passi il tempo misurando la febbre e contando i sintomi che si fanno strada uno a uno: coliche, mal di testa insopportabile, dolore agli occhi, dolore alle ossa, brividi. Fra le persone che hai contagiato ce n’è una che non sta bene, ma la sua temperatura non salirà mai oltre il 36,8, vanificando così lo sforzo della misurazione di temperatura all’ingresso dei locali pubblici e dei supermercati. Mi rendo conto che ho deciso spontaneamente di richiedere il tampone ma in quanti, al mio posto, stanno facendo finta di niente per non interrompere i loro impegni, per non essere messi in quarantena segnalati alla prefettura, chiusi in casa, e continuano a fare una vita normale spargendo virus? Intanto, al quarto giorno di febbre, mentre sto lavando la tazza della colazione, tutto d’un tratto sento un forte odore di salma selvatica in decomposizione. Provo a mangiare un biscotto e sa di salma in decomposizione. Dura qualche minuto, poi arriva il buio dell’olfatto. Da quel momento, ogni cosa ha l’odore della neve fresca. Ovvero, nessuno.
Perdere l’olfatto è come diventare sordi, non me n’ero mai resa conto. Mi documento su internet e sbaglio a farlo perché leggo che nel 10% dei casi in cui si manifesta questo sintomo del Covid, l’olfatto non torna più. Una buona dose di panico ci voleva. La prima cosa che prometti guardando la collezione di profumi sulla toeletta è di farci il bagno dentro, quando ricomincerai a sentirne l’odore. Se ricomincerai a sentirne l’odore. Intanto il cibo fa schifo, senza lo stimolo dell’aroma che viene dalle provviste ti scordi di mangiare e, sì, dimagrisci molto e, no, non ti devi augurare di prendere il Covid solo perché vuoi dimagrire. Intanto, la sera chiudo la valvola del gas perché in caso di perdita non me ne accorgerei e devo gettare via ogni avanzo nel frigo perché non sono in grado di capire se si è guastato. Squilla il telefono, sono quelli del trading online e il Covid si rende utile quando gli rispondi “mi dispiace, sono positiva” e anche se non ha nessuna attinenza con le loro proposte si defilano scusandosi. Trovo un messaggio su Facebook di una tizia che si dice molto vicina perché anche lei se l’è vista brutta con ‘sto virus maledetto e ti inonda di consigli su come guarire presto. Le chiedo dopo quanti tamponi è risultata positiva: “io l’ho preso a gennaio, al tempo non si sapeva ancora che fosse arrivato in Italia”. Scusa, come fai a sapere che era Covid? “Eh, queste cose si sentono”. Certo, come le gravidanze.
Messaggi successivi di altri amici/conoscenti/sconosciuti che ti raccomandando di assumere: vitamina C (“mio zio ci si curava tutto”), tisana di zenzero e limone (“io mi ci curo tutto”), lattoferrina (“non dare retta a quel truffatore di Burioni!”), vitamina D (“stai molto al sole!”), aglio a morsi (“è antivirale!”), quelli che ci tengono a umiliarti con loro superiorità fisica e morale perché loro non l’hanno preso (non abbocco: lo dicono a me perché stanno cercando di convincere se stessi, muoiono dalla paura di prenderlo), quelli che lo hanno avuto davvero, ti raccontano il loro decorso e i loro sintomi ma non coincidono con i tuoi e ti chiedono “ma sei sicura che sia Covid? Il tampone dove lo hai fatto”? Quelli che ti chiedono “ho letto che sei positiva, ma hai pensato a parlarne con un medico?” (ma dai?). Per sostenere la validità dei luoghi comuni che non nascono dal nulla: le amiche romane mi chiamano per raccomandarsi di stare a riposo e non pensare a nulla (“abboffati di Netflix!”) e quelle milanesi (qualcuna) mi chiamano per assicurarsi che non mi sia messa in malattia, perché con un po’ di febbre si può fare smartworking.
Gli spiego che sono in malattia ufficiale, segnalata all’Asl e alla Prefettura e che non potrei lavorare nemmeno se lo volessi (ma non voglio sono a pezzi). “Beh, almeno leggi qualche libro in più”. La realtà è che quando hai il Covid hai solo voglia di cazzeggiare perché sei spossata, dolorante, preoccupata per te e per gli altri, febbricitante, senza olfatto, disorientata e a stancarti molto ci pensano le pratiche da svolgere per i tamponi tuoi e dei tuoi anziani, la consultazione dei referti online, la richiesta di commissioni ai volontari sperando che non si stufino mai di farle, i conti da tenere con i negozianti che ti fanno credito perché non sei autorizzato ad allungare nemmeno una banconota dallo spiraglio della porta. Il massimo della concentrazione la puoi riservare a rivedere Twilight per la settantordicesima volta e qualche puntata di Suits. Al settimo giorno ti richiama il trading online mentre sei in bagno, gli dici con voce rantolante che sei in fin di vita in terapia intensiva “ma io le porto via solo qualche minuto, signora”. Attacchi e smadonnando ti accorgi che sta tornando l’olfatto.
All’inizio è un refolo del sapone sul lavandino. Svanisce quasi subito ma dopo qualche ora lo senti di nuovo. Il giorno dopo, tutto ha lo stesso odore di sapone, anche il cibo, come se il cervello avesse memorizzato quel primo segnale e lo riproponesse. Il giorno successivo senti l’odore delle arance, il terzo il pelo del tuo cane e il fetore dei calzini che hai portato per una settimana, ignara. Ho passato 10 minuti ad annusarmi le ascelle dalla felicità, prima di lavarmi. È una gentile concessione del virus, perché la febbre resta e il dolore dietro gli occhi è così pungente da mantenerti in uno stato di lacrimazione costante, cosicché il filmato di Marta Gonzalez che balla il lago dei cigni con l’Alzheimer mi trova già pronta. Ed è arrivata la tosse. Ma il saturimetro l’ho devoluto a mamma e papà e pazienza, basta non coricarsi sul fianco che se no i polmoni si incollano tra loro e respiri male. Intanto sono arrivata al 17esimo giorno di isolamento. Due giorni fa sono stata di nuovo al drive in. La sera prima ero emozionata come per un appuntamento con Barack Obama: uscire di casa con l’autorizzazione dell’Asl, dei carabinieri, del sindaco, quando sei in isolamento Covid diventa l’evento mondano del mese. Fai gesti che hai dimenticato, la messa in piega, ti trucchi, scegli vestiti che non siano tuta e felpa e ti metti il profumo. Anche stavolta, mentre è quasi il mio turno, ammiro le figure in tuta usa e getta con le mascherine, le visiere, i guanti, i copricapo, i nomi scritti a pennarello sulle spalle perché se no persino tra loro faticano a riconoscersi. Sono sfiniti eppure fanno le moine ai bambini per convincerli a farsi infilare il bastoncino nel naso. Che Dio li benedica.
(Continua…)