Cosa succede quando hai il Covid (parte seconda)


(Per leggere la prima parte di questo racconto Cosa succede quando hai il Covid vai qui)

La prima persona che ho incontrato è una parrucchiera. Non la mia, una turista in fondo alle scale di casa che cercava la strada per arrivare al borgo di Calcata Vecchia. So che era una parrucchiera perché, contenta come sono di parlare con qualcuno a meno di quattro metri di distanza, non ho resistito alla tentazione di dirle “sa che lei è la prima persona che incontro dopo 26 giorni chiusa in casa col Covid? Mi scusi per la ricrescita dei capelli”, e quella mi ha risposto “non si preoccupi, ho a che fare con le ricrescite tutto il giorno!”.
Alla fine era arrivato il certificato di guarigione, e sono schizzata subito fuori dalla porta come se mi avessero buttata fuori a calci. Ormai avevo iniziato a parlare anche con la coppia di grassi gechi che girano indisturbati per casa svolgendo mansioni di insetticidi naturali, facendosi beffe del mio cane il quale, privo dell’uso delle gambe posteriori, li guarda e non può balzare a prenderli. Ho scoperto quale angolo della casa hanno scelto come lettiera e nel microcosmo/ecosistema che può diventare un appartamento di 60 mq mentre ci sei segregato dentro per quasi un mese, ho considerato rimarchevole un problema di cacche di geco.
Al diciottesimo giorno di isolamento è scoppiato un temporale epocale. Litigo spesso con i fornitori di corrente elettrica della Tuscia viterbese per i quali la fornitura è conforme ai sacri principi del servizio universale, ma il servizio universale, secondo me, non comprende sbalzi di tensione che nel XXI secolo bruciano modem, decoder, caricabatterie ed erogano il buio totale al terzo tuono. Stavolta la corrente è saltata al secondo tuono e sono rimasta al buio appena dopo aver staccato la spina di ogni apparecchio a rischio. Sembrava la scena clou di un film horror, quando dal divano gridi alla protagonista di prendere un coltello dal ceppo in cucina perché sta arrivando il mostro. In realtà, ho un mal di testa così devastante per colpa dello stramaledetto Covid che se spuntasse un mostro nell’ombra lo ammazzerei io a ginocchiate solo per sfogarmi.

C’è il sole fuori, mai notato quanto fosse cosi bello il sole, caspita. Sono ancora molto debole e per salire una rampa di scale mi è venuto il fiatone da scatto dei 100 metri. Non mi devo e non mi voglio lamentare perché mentre io perdevo l’olfatto, la fame e quattro chili, negli ospedali c’era chi perdeva – e perde – la vita, qualche migliaio solo nei giorni in cui andavo avanti a Tachipirina, e mi bastava. Mi è andata persino meglio della mia coinquilina di Milano alla quale sono caduti i capelli a ciocche; abbiamo letto sui giornali inglesi che questo sintomo da loro è abbastanza diffuso, ma credo che per lei sia stata la paura di finire intubata. Lei non ha ancora il via libera perché anche se si è ammalata insieme a me, in Lombardia non è riuscita a fare il primo tampone con gli stessi tempi. Però al telefono è euforica perché ormai sappiamo che non finiremo in terapia intensiva né io, né lei, e nemmeno i miei genitori. Non riuscivo a parlarne, dei genitori, troppa paura che stavolta se ne andassero solo perché avevo ceduto a un invito al ristorante. Mia madre è così anziana che non ricorda nemmeno di aver preso il cortisone, di aver tenuto il saturimetro al dito tre volte al giorno, di essere stata malata di “spagnola”, così le dicevo al telefono quando si lamentava che non l’andavo a trovare, perché vai a spiegarle il Covid a 92 anni, quando per rendere l’idea basta la malattia di cui è morto suo zio. Appena possibile farò il test sierologico e cercherò di donare il plasma, l’ho promesso come fioretto se fossimo usciti tutti indenni, che con 79 anni di media in quattro non era scontato.

Ci riuscirò a mantenere tutte le promesse che si fanno sempre mentre vivi una lunga, brutta avventura? Soprattutto quella più scontata e banale: “cambierò vita”. Per adesso l’unico cambio sicuro riguarda la spazzatura. Durante la positività, la differenziata va a farsi benedire. Non so il protocollo osservato dagli altri comuni, ma da queste parti devi mettere tutto insieme in un sacco nero, come negli anni 80, e due giorni a settimana, all’alba, passa a ritirarla fuori dalla tua porta un tizio bardato come un astronauta. Molte persone non divulgano volentieri la notizia della loro positività, preferiscono che si rispetti la loro privacy e che al tracciamento dei contatti ci pensino l’Asl, il Comune, gli enti che ne custodiscono il segreto, le persone della loro cerchia più stretta. Ma i sacchi neri fuori dalla porta dopo le 21.00 ti tradiscono.
Prima di guarire devi sopportare ancora una certa quantità non modica di stupidaggini. C’è quella che ti dice che se ordini il sanificatore e lo accendi in casa ti negativizzi prima. Devi sopportare il corteggiatore molestatore di Twitter a cui hai dato troppa corda in chat per solitudine, che ti dice: “dipendesse da me non ti lascerei uscire subito di casa, appena guarita, lo dico per la tua salute”, ma per fortuna nella mia vita conti meno delle cacche di geco per cui ciao, ora posso levarti l’amicizia. C’è la tipa che su Facebook ti spiega teorie discutibili sul vaccino in arrivo, ti chiedi se sia virologa e poi vai a vedere il profillo e sì, insegna danza moderna e nel tempo libero pubblica fiorellini e frasi sfatte, e c’è quello per il quale “un vaccino che protegge nel 90% dei casi, per una malattia che nell’80% dei casi è asintomatica fa un po’ ridere. Giustamente qualcuno ha parlato di effetto placebo” e per una mezz’ora ti chiedi che voglia mai dire, ma non lo chiederai a lui per non farti attaccare bottone. Ora che sei tornata in possesso di libertà che apprezzi solo quando non ne puoi disporre, se sei il tipo di persona per cui niente accade mai per caso fai fatica ad afferrare il senso di tutto questo. Forse solo a permettere che a Natale tutta la mia famiglia possa assembrarsi senza più problemi, dato che lo abbiamo avuto in tre su quattro. Ma alla fine magari fai una promessa: dimenticare il peggio e ricordare solo una cosa. Quella sera in cui, appena scoperto di essere malata, eri triste e dolorante ma hai riso tanto quando hai sentito un coro di “Debby!” alla finestra, ti sei affacciata e hai visto i vicini di casa: “vieni a cena da noi? Abbiamo il vino buono e siamo tutti positivi”. Geniali.

(Questo diario rappresenta solo la mia singola testimonianza che non è universale: per maggiori informazioni consultate sempre il medico di base e per sapere tutto sulla decorso della malattia leggete questa pagina del Ministero della Salute)